Ceprano, dalla stazione ferroviaria alla piazza: memorie e tracce lasciate dai viaggiatori dell’800

In occasione del decennale dell’uscita del libro, proseguiamo nella pubblicazione di alcune parti del lavoro di Francesco Arcese, Mauro Martini, Pier Giorgio Monti, Onorina Ruggeri: Immaginando Ceprano. Memorie, Mappe e Rappresentazioni (Ceprano, MAF Edizioni, 2014) – Premio Fregellae 2016.  Le memorie rievocate dal Martini, come le molte tracce del passato, hanno la capacità di sollevare la mente dal limitato orizzonte della quotidianità, di cui oggi abbiamo estremo bisogno, e di rafforzare in noi il sentimento di identità comunitaria e di accoglienza, e quindi favorire la convivenza civile. 

Ecco dunque Ceprano, ancora una volta vista dai viaggiatori ottocenteschi: la sua nuova stazione ferroviaria, il buffet a servizio dei passeggeri in transito, famoso ma non per il vino, i turisti stranieri che pernottano in città e riprendono a scrivere le loro memorie, il trasferimento in città con un calesse lungo una strada accidentata, la locanda di una semplicità primitiva, la paura dei briganti e la noiosa dogana, la veloce adesione dei cepranesi al Regno d’Italia, i grandi cambiamenti che si potevano già notare all’orizzonte, le bandiere tricolori “in ogni casa, nelle piazze, nei caffè e in teatro”.

a.c.


Passaggi e paesaggi di frontiera. Ceprano e dintorni nelle memorie dei viaggiatori dell’800

di Mauro Martini

Secondo quanto riportato dalla Black’s Guide to Italy edita ad Edimburgo nel 1869 dalla stamperia Adam and Charles Black, specializzata in treni e orari, il treno proveniente da Roma fermava a Ciampino, Marino, Albano, Civita-Lavinia (oggi Lanuvio n.d.r.), Velletri, Valmontone, Segni, Anagni, Sgurgola, Ferentino, Frosinone, Ceccano, Pofi-Castro e Ceprano, per continuare poi verso Isoletta, Roccasecca, Aquino e le altre stazioni fino a Napoli.  Alla frontiera di Ceprano era prevista una sosta di circa quaranta minuti per la restituzione dei passaporti che erano stati prelevati all’inizio del viaggio. La ferrovia poi attraversava il Liri con un ponte in ferro di foggia britannica, come ci lascia intendere la seguente frase di James Hudson: The railway is well constructed and British skill is conspicuous in a fine iron bridge of considerable dimensions (La ferrovia è ben costruita e l’abilità britannica è evidente in un bel ponte di ferro di notevoli dimensioni).  Ad Isoletta avveniva un’altra sosta di circa trenta minuti per l’esame del bagaglio ed i viaggiatori, prima di ripartire per Napoli, come si è detto, erano costretti al cambio di carrozza. Tutta questa complicata procedura si mantenne però per pochi anni; dopo il 1870, con l’annessione dello Stato Pontificio all’Italia, anche la frontiera di Ceprano sparì. Il progresso e la macchina a vapore avevano generato opportunità di sviluppo economico per i territori della Ciociaria, ma molto avevano anche fatto scomparire, compreso qualche frammento d’identità locale.

Qualcuno a Ceprano seppe intuire comunque rapidamente le nuove potenzialità create dall’arrivo del treno e la stazione si guadagnò ben presto una singolare menzione a livello internazionale, come segnalato da una guida turistica inglese nel 1867: There are excellent buffets at Ceprano and Foligno stations. L’affermazione trova qualche riscontro nel brano successivo, tratto dal racconto De Rome a Naples au Printemps de 1870, dell’Abate Jean Marie Suchet, Superiore del Seminario di Ornans, città francese vicina a Besançon. Egli descrive un pranzo consumato proprio al rinomato buffet della stazione di Ceprano, in attesa di sbrigare le formalità per entrare nel territorio del Regno d’Italia. I fatti narrati si svolgono nella primavera che precede il fatidico 20 settembre 1870, giorno in cui i bersaglieri italiani, entrando a Roma dalla breccia di Porta Pia, posero fine allo Stato Pontificio:

“La stazione di Ceprano è bella, è persino ornata di statue”

“Ci troviamo all’estrema frontiera dello Stato Pontificio, è alla stazione di Ceprano che dobbiamo cenare. Ci vengono restituiti i passaporti, e seguiamo la folla al buffet. Ahimè! Devo dire, abbiamo fame, e non ho mai visto un prosciutto così fresco, annusato un paté così profumato, odorato una zuppa così succulenta come in questo dannato buffet. I viaggiatori che si fermano qui sono noti per amare la carne fresca. Sono orchi inglesi o russi, che non conoscono nient’altro che la bistecca ed il paté; ma tutto questo per noi è un frutto proibito, è venerdì! Ed il solo cibo che ci possono offrire consiste di qualche sardina, un pezzo di formaggio e delle mele. Innaffiamo questo pasto frugale con un vino che il proprietario del buffet ha pensato di raccomandare fregiandolo di una splendida etichetta, dove afferma che è un vino di sua produzione: Vino nostrale. Ebbene! Francamente mio caro ospite, non c’è da vantarsi di produrre una tale mistura. Ho bevuto per molti anni il vino della Motte de Vesoul, che non avete l’onore di conoscere, ma che gode di una ben triste fama nel mio paese; beh, lo preferirei al vostro, e se è necessario avvertirò i viaggiatori che in Italia, più ancora che in Francia, bisogna diffidare dei vini locali. Mentre desiniamo, un treno italiano viene a sostituire il treno pontificio che abbandoniamo. Al posto dei bei vagoni nuovi di Roma, entriamo nelle vecchie vetture di Napoli, che sono molto meno pulite e meno comode. In quel momento ha luogo una scena divertente tra i viaggiatori e le contadine di Ceprano, che offrono arance da dietro la staccionata. Ogni italiano che si rispetti vende la propria merce al triplo del suo valore. Questa regola non conosce alcuna eccezione e le fruttivendole non derogano. Il buffet vende le arance a cinque soldi l’una, le contadine offrono le loro a tre soldi, si negozia, si ottengono a due soldi e ci si considera soddisfatti. Le belle melagrane, che da queste parti son già maturate, costano un po’ di più. Ma quando suona la campanella, annunciando che non manca che un minuto alla partenza, le commercianti cambiano tono, offrono tutto per un soldo, chiamano i viaggiatori con voce sensuale e quando risuona il fischio definitivo, credo che darebbero volentieri la loro frutta per sei soldi alla dozzina. Al ritorno, conoscevamo il meccanismo e posticipando i nostri acquisti all’ultimo momento, ottenevamo per un soldo arance splendide.

La stazione di Ceprano è bella, è persino ornata di statue; sulla facciata opposta si trova la dogana, e il tutto, come al solito, si trova in mezzo ai campi. I soli pubblici ufficiali che abbiamo visto, a difesa di questa frontiera tanto minacciata, erano tre gendarmi; ma dopo mille cinquecento metri, la musica cambia. Attraversiamo un’ampia gola, in fondo alla quale scorre un torrente dall’acqua giallastra e fangosa. È il Liri o Garigliano, che divide i due Stati. Una garitta sovrasta la sponda sinistra, e la berretta sgraziata di una sentinella che sembra scrutare la sponda pontificia, ci informa che abbiamo lasciato lo Stato ecclesiastico per entrare in uno Stato militare. Ecco gli ufficiali, i soldati, i doganieri: tutti scendono e si vanno a sottoporre alla noiosa cerimonia della perquisizione del bagaglio. Siamo esentati, perché non portiamo che una canna ed un ombrello; approfittiamo di questo tempo per esaminare i dintorni. Isoletta non è altro che un paesotto posto al confluire del Liri e del Sacco ma questo luogo acquisterà importanza a causa della biforcazione che gli Italiani si sono risolti ad ubicarvi, per evitare il passaggio da Roma, e comunicare in maniera diretta con Napoli.”

Venditrice di arance a Ceprano, disegno di Cesare Pascarella inserito nell’edizione
del 1914 del suo libro Viaggio in Ciociaria

Già dal 1867 i cepranesi avevano iniziato a manifestare ufficialmente le loro aspettative di adesione al Regno d’Italia. Lo testimonia bene la fonte seguente. Nella seduta della Camera dei Deputati al Parlamento Italiano del 17 dicembre 1867 l’onorevole Luigi Federico Menabrea, presidente del Consiglio dei Ministri e ministro degli affari esteri, lesse il seguente dispaccio che aveva personalmente ricevuto:

“All’onorevole presidente del Consiglio dei ministri in Firenze.

Unito a questo foglio la Giunta di Governo provvisorio si fa l’onore di rimetterle l’atto di adesione spontanea ed unanime del popolo di Ceprano al regno di Vittorio Emanuele II Re d’Italia, affinchè ella sia compiacente presentarlo alla Maestà Sua, e nello stesso tempo pregarla e scongiurarla di volere occupare militarmente al più presto possibile questa città, posta a poche spanne dal confine, per guarentirla dal disordine, e forse dall’anarchia. — Ceprano, 28 ottobre.”

 Seguì un mormorio dei presenti. Una voce dalla parte sinistra dell’aula parlamentare chiese: “Da chi è firmato?” e la risposta del ministro fu: “Dal sindaco”. Ancora mormorio.

Non sorprende dunque che nei primi giorni di quel settembre 1870 molti cepranesi attendessero con speranza e trepidazione l’imminente passaggio delle truppe italiane sul Liri e l’invasione dello Stato Pontificio. Durante quella vigilia in diversi paesi della ciociaria pontificia, quelli prossimi al confine, ebbero luogo manifestazioni di aperto sostegno all’azione italiana, prontamente segnalate in un dispaccio telegrafico informativo giunto al nord d’Italia:

“Dalla frontiera Pontificia, giorno 9 (settembre 1870, n.d.r.): […] Sulle mura di Falvaterra sventolano le bandiere tricolori. A Ceprano ve ne sono moltissime in ogni casa, nelle piazze, nei caffè e in teatro. Ovunque si affissero cartelli col motto: Viva Vittorio Emanuele in Campidoglio, viva l’Italia.”

G. Induno in Bandiera nazionale del 1863, dove tre popolane in abito ciociaro sono intente a cucire il tricolore, al riparo dagli sguardi curiosi, lavorando nel timore di essere scoperte: due confezionano la bandiera, mentre la terza sta in vedetta. 

Una conferma di tali manifestazioni e dell’evidente interesse degli stranieri per le vicende che si svolgevano in questa parte del Lazio, venne anche dall’autorevole quotidiano viennese Neue Freie Presse. Nel numero uscito il 12 settembre così raccontò in breve ai suoi lettori l’atmosfera che si viveva al confine: “Ci è stata segnalata ovunque viva emozione. A Ceprano è stata portata in giro per tutta la città la bandiera italiana. Risuonavano le esclamazioni: Viva Vittorio Emanuele! Andiamo in Campidoglio.”

La brigata Savona, comandata dal Generale Angioletti, entrò in Ceprano il 12 settembre 1870, circa alle 4,30 di mattina (altre fonti dicono alle 7,00; altre ancora alle 10,00). Il Fränkischer Kurier di Norimberga, così come molti altri giornali in Europa, riportò subito l’importante notizia: Die Brigade Savona wurde enthusiastisch in Ceprano empfangen (La brigata Savona è stata accolta con entusiasmo a Ceprano).

Naturalmente Il Giornale di Roma, sostenitore del Papa, nel n. 207 propose ai suoi lettori una cronaca molto diversa dell’ingresso italiano nello Stato della Chiesa:

“Il nemico si presentò dovunque con forze imponenti, ricevuto in ogni luogo dalle fedeli popolazioni con l’indifferenza imposta dalla necessità dinanzi alla violenza soperchiente. […] A Ceprano la truppa invaditrice atterrò lo stemma pontificio, installando nuovi impiegati al telegrafo ed alla Posta.”

Ceprano divenne così da quel giorno una città del Regno d’Italia e tutto il territorio ciociaro, per secoli diviso dal vecchio confine, si riunificò socialmente e culturalmente sotto il tricolore. Con la fine delle ostilità e la raggiunta unità nazionale la vita tornò a scorrere come sempre a Ceprano ed anche i turisti stranieri, a volte perché costretti dalla sosta notturna effettuata nei primi anni dal treno, ripresero a pernottare in città ed a scrivere le loro memorie.

Nel 1896, quando Roma era divenuta ormai da anni la capitale ed il fenomeno del brigantaggio post-unitario era stato ormai sconfitto, venne pubblicato Trente Jours a Travers la Savoie, la Suisse et l’Italie, un taccuino di viaggio redatto da René Kerviler (1842 – 1907) ingegnere, archeologo e bibliografo francese. Per suo tramite possiamo così accedere ad ulteriori interessanti descrizioni: il tragitto in calesse tra la stazione di Ceprano e la città; il tipo di calesse con cui si effettuava il servizio e soprattutto l’interno della locanda, che risultava gestita in quell’anno da una “vecchia locandiera”. Visto il riferimento che lo scrittore fa all’età avanzata della signora è molto probabile che fosse ancora la medesima maîtresse che abbiamo trovato citata, circa vent’anni prima, dal francese Alphonse Karr ed è altresì probabile che nei vent’anni in questione la signora non abbia commissionato molti lavori di manutenzione del suo immobile. Tutto ciò emerge dal brano che segue, dove si coglie bene anche quella volontà di enfatizzare i disagi patiti spesso presente nelle pubblicazioni dei viaggiatori stranieri i quali, evidentemente, ritenevano tale drammatizzazione necessaria per rendere più intriganti agli occhi del lettore le loro vicende di viaggio, altrimenti, nella maggior parte dei casi, di assoluta banalità.

La piazza di Ceprano agli inizi del ‘900

“Alle nove di sera arrivammo alla stazione di Ceprano, antica frontiera tra lo Stato Pontificio e quello Napoletano, dove il treno si fermava per la notte. Nel cortile della stazione sostava un vero calesse a quattro ruote sospeso su delle enormi molle a supporto di gigantesche cinghie di cuoio e risalente perlomeno al regno di Murat. Era il solo mezzo pubblico per l’hotel. Come divenne notte fonda vi montammo tutti e tre e avanti, coraggio! Eccoci lanciati su una strada accidentata che ci sembrava tracciata in pieno deserto e che non finiva mai. Dopo un quarto d’ora non scorgevamo che le stelle ed erano sempre in posizione stazionaria, cominciammo a chiederci dove ci stesse portando e ci vennero in mente le terribili storie di rapimenti da parte dei briganti. Ci avrebbe condotto in qualche caverna dove avrebbe richiesto il nostro riscatto, sotto pena di tagliarci le orecchie?…Ci sentivamo rassicurati solo a metà: il cocchiere ci sembrava un sinistro figuro e gli chiedemmo in un cattivo latino, quando il pavé avrebbe risuonato sotto le ruote. Ci depositò alla porta di un albergo di una semplicità primitiva, il più avviato dei dintorni; una vecchia locandiera, come se ne vedono nei quadri di studio, ci diede delle lampade di rame del tipo delle lampade dei minatori, rimaste senza dubbio le stesse dal tempo degli antichi Volsci. Salimmo una vecchia scala con rampe in pietra, di cui il corrimano era una grossa corda deteriorata dall’uso e ci diede due camere un tempo imbiancate a calce, le cui enormi mura avevano l’aspetto di mura di fortezza.”

La strada “accidentata” percorsa in calesse dal signor Kerviler e dai suoi due compagni, quella che dal piazzale della stazione ferroviaria portava a Ceprano, veniva allora chiamata via Corneta ed era stata da poco aggiunta all’elenco delle strade provinciali con regio Decreto a firma Umberto I, n. 5704 del 7 ottobre 1880, con le seguenti motivazioni: “[…] unisce alla stazione la strada provinciale Casilina, e mercè questa s’innesta anche ad altre due strade importanti della provincia di Caserta, per cui detta strada ha non solo un grande interesse interprovinciale, ma completa pure la comunicazione di varie linee stradali colla stazione ferroviaria di Ceprano.”

La stazione di Ceprano e, di fronte, l’edificio della dogana con gli alloggi

Dell’originaria stazione di Ceprano è rimasta solo qualche immagine su cartoline dei primi del ‘900 ed il fascino di quella bella struttura che, come si è appreso, era “persino ornata di statue”, è ormai irrimediabilmente perduto. Tuttavia almeno una breve descrizione delle sensazioni provate da un viaggiatore, sul finire del XIX secolo, all’apparire dell’aurora, seduto in carrozza durante i minuti di sosta del treno proprio in quella stazione è ancora rintracciabile in un brano tratto dal racconto La Conquista di Roma (1885), della famosa scrittrice e giornalista Matilde Serao (1856 – 1927):

“Ceprano, Ceprano, dieci minuti di fermata, si gridò fuori. L’onorevole Francesco Sangiorgio si guardava attorno, ascoltava, come trasognato: egli aveva la febbre. Prima una sbarra di un verdino pallidissimo, che saliva, parallela, all’orizzonte: poi un chiarore livido, freddo, di cui sembrava potersi vedere la lentissima dilatazione sull’alto del cielo. In quella glacialità di notte spirante, la campagna romana si apriva, vastissima.


Riferimento: F. Arcese, M. Martini, P.G. Monti, O. Ruggeri, Immaginando Ceprano. Memorie, Mappe e Rappresentazioni (Ceprano, MAF Edizioni, 2014) – Premio Fregellae 2016

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