Ceprano, 1843. L’Hotel de l’Europe

Ceprano, 1843. L’HOTEL DE L’EUROPE

Cesare Malpica (Capua, 1804 – Napoli, 1848)  è uno che viaggia. Giornalista, poeta, attivista di idee liberali, dopo aver lasciato l’avvocatura a Salerno, è solito mettere nero su bianco le impressioni dei suoi frequenti viaggi nelle province del Regno delle Due Sicilie e nel vicino Stato Pontificio. Dunque ancora un testimone oculare, quindi molto attendibile.

Cesare Malpica

Lo abbiamo già incontrato nel libro Immaginando Ceprano. Memorie, Mappe e Rappresentazioni (Edizioni MAF, Ceprano 2014, pag.71). Oggi vogliamo offrire ai nostri lettori il testo completo redatto dallo scrittore capuano, integrando la parte dedicata dal Martini al soggiorno presso l’Hotel de l’Europe con quella che descrive l’esperienza del viaggiatore. Il brano è tratto dal taccuino del viaggio compiuto da Napoli a Roma nel mese di aprile del 1843. Sono gli anni degli avventurosi viaggi in carrozza, ne mancano ancora circa venti all’entrata in funzione della nuova ferrovia Roma-Ceprano-Napoli. In quell’anno Malpica si trova sulla strada che da Napoli porta a Roma, a bordo della diligenza ‘Imperiale’, quando alcuni compagni di viaggio, due inglesi e tre ‘napolitani’ manifestano al conduttore il desiderio di salire alla “famosa e magnifica badia di Montecassino. Tra loro una coppia di Inglesi con una strana figura di donna “che occupava il giusto mezzo tra la bellezza, e la bruttezza, ma quella poca bellezza era strozzata da un occhio immobile di vetro, da una bocca sempre chiusa, da un collo sempre ritto. Avea la mano bianchissima, ma il suo volto ti dicea che quella mano non saprebbe stringerne un’altra in segno di affetto.” Per Cesare divenne subito Miss, e dopo averli salutati, augura loro buon viaggio con un ‘arrivederci a Ceprano’. Dopo la sosta per far scendere i cinque viaggiatori a Cassino, la diligenza riparte alla volta del paese di frontiera.

McEntee Jervis A. Journey-s, Pausa nella campagna romana (1868)

Lasciamo alle parole del Malpica la descrizione del suo arrivo a Ceprano e l’incontro con il doganiere della gendarmeria pontificia: “Dopo breve tragitto ne apparve una porta, udimmo il mormorio d’una riviera, vedemmo disegnarsi nell’aere oscuro una figura, con sul capo un cappello dalle due punte ritorte in su; poi entrammo fra due linee di casupole tenebrose, per una via tenebrosa. Era Ceprano col suo povero fiume, e co’ suoi poveri abituri (umili dimore n.d.r.): quell’ uomo era un bersagliere. Addio terra della Sirena.”

Gendarmi e squadriglieri pontifici

Ceprano doveva essere abituata alla presenza di stranieri. Per accoglierli la città si era dotata di un’offerta ricettiva, disponibile tutto l’anno. Nel 1833 una guida turistica inglese (Starke, Travels in Europe) riporta l’informazione che a Ceprano esiste al momento una sola locanda, ma “un Hotel nuovo e bello è qui in costruzione”. Ma già nell’edizione del 1836 la Starke segnala che il secondo Hotel è funzionante, “nuovo e bello, discretamente arredato e fornito di parecchi letti”.

Nel 1841 un altro viaggiatore, il reverendo americano Stow, nel descrivere il pernottamento a Ceprano ci permette di conoscere per la prima volta il nome di questo nuovo hotel: Hotel de l’Europe.

Ecco dunque il nostro Cesare Malpica che nel 1843 scende dall’Imperiale e si trova al cospetto di un albergo dal nome accattivante e di moda in quegli anni di grandi movimenti di idee, di persone, di cose e attività. Qui inizia il racconto completo del viaggiatore capuano sulla notte trascorsa all’Hotel de l’Europe.


PERUSI BEY

Ceprano, dunque albergo, e con esso il pranzo, il riposo! No, o lettori. La strepitosa carrozza entrò a suo bell’agio in una stalla e colà le cose di sopra, e quelle di sotto ossia tutti noi, e tutti i bauli si fecero scendere, questi per esser visitati, noi per assistere alla visita; che a vero dire fu eseguita con decenza e speditezza. Ciò fatto ci avviammo all’albergo, che al solito si fa chiamare in francese Hotel de l’Europe, e tosto fummo al cospetto del signor D. Carlo Perusi, nostro padrone.

A pranzo signori, gridò non appena ci vide disposti alle abluzioni; e noi rassegnati sedemmo al funesto desco, a cui facemmo onore come gl’ infermi alla mensa dell’ospedale. Pochi ossami, e poche bricciole rappresentavano i trofei della pugna, quando giunsero da Montecassino gli affannati compagni.

A pranzo signori – gridò Perusi-Bey (Il capo Perusi, n.d.r.), che dicea pranzo quei residui.

E gli ossami e le bricciole disparvero.

– Garçon portate du the….

–  Non ve n’ha.

 – Oh!

 – Del pane …

– Del Formaggio …

– Un altro pollo …

– Delle uova …

– Del vino!

– Non v’è più nulla Signori.

– Più nulla! ma noi siam digiuni!

– Vale lo stesso… qui basta sedersi per pagare.

Un grido pari a ruggito, un grido che risuonò per tutta l’Europa, un grido che era a un tempo di disperazione e d’indignazione, alzarono ad una volta i poveri affamati.

– Prendiamo l’Europa d’assalto; fu il consiglio d’un bravo militare Toscano, dall’ occhio scintillante, dalla fisonomia avvenente.

-Facciam noto il fatto a’ bersaglieri, soggiunse un che parea un artista.

– Yes.

– No.

In questo trambusto d’uomini diversi, di lingue diverse, di lamenti diversi, solo due persone stavan come torre salda; Perusi-Bey, e la immota, la impavida, la cristallizzata Miss. Quegli colle braccia conserte al seno, questa cogli occhi fissi alla volta. Benedetta!

– E voi non dite nulla! disse a me il Toscano.

– Ed io siam lungi da Napoli 69 miglia, e da Roma 64… che vale nella fata dar di cozzo! Fumiamo! I vapori del tabacco dissipano gli stimoli della fame.

Piacque il consiglio. L’ Europa fu involta in una nube di fumo.

Miss si scosse, ci slanciò uno sguardo indefinibile, e si ritirò col passo della statua del commendatore nel convitato di pietra. Questo fu il segnale della ritirata. Ciascun di noi munito di lucerna sepolcrale avviossi verso il suo numero, ché negli alberghi voi lasciate il vostro nome di battesimo, e divenite cifra numerica. Io per esempio, mi chiamava n° 9 — il numero appunto delle caste muse che allora indicava quello della stanza a me assegnata.

IL CATALETTO E LE FIERE

Non era orribile quel numero 9. Ma! quando volsi l’occhio al letto rabbrividii quel letto aveva la figura d’un ferétro! A fianco ve n’era un altro destinato ad un napolitano, che si chiamava colla stessa mia cifra. Ma quel buon galantuomo vi si stese in men che no’l dico, forse ridendo internamente del mio timore. Ma va e frena la fantasia quando ha preso il suo volo!

– Che fate? mi domandò il mio compagno vedendo che io m’intabarrava.

– Mi dispongo a contemplare le stelle.
– Buon viaggio.

– Buon sonno.

– Ma l’umidità vi farà male… e per giunta domani non vedrete i paesaggi, voi che li amate tanto!

-Non monta, purché eviti il letto della morte.

E senza dir altro mi posi alla finestra.

L’aere era oscuro, Ceprano immerso nel sonno; il notturno silenzio era solo interrotto dal gracidar delle rane, dal dimesso mormorio della riviera, e dal sinistro canto d’una civetta appollajata su la contigua casa de’ soldati. Del resto, non un essere vivente nella via, non un lume, non una voce umana. Io intanto vagando di pensiero in pensiero, passava a rassegna tutti i fatti della storia di cui potea ricordarmi.

Qui, dicea fra me, l’arcivescovo di Capua, a nome di Gregorio IX assolvea Federico dell’anatema, nel dì 20 di agosto 1201; di qua Federico partissi per andare a inchinare il Pontefice in Anagni. Qui venne Manfredi ad incontrar Papa Innocenzio, il quale per maggiormente onorarlo gli diede a portare il freno del suo destriero fino al ponte del Garigliano. E qui pure Carlo d’Anjou, venendo alla conquista di Napoli trovò agevole il passo chè il conte di Caserta invece di difender la terra volse le spalle al nemico. Onde Dante scrisse poi che a Cepperano ogni Pugliese fu bugiardo. Terribili parole che uno storico di Napoli ha voluto invano confutare. Stan contro di lui le testimonianze del Ghibellino non solo, ma altresì quelle del Bzovio, del Fazzello, del Caraffa, del Costanzo, del Collennuccio, dello Spinelli. Pur sia che vuolsi, certo è che qui la fortuna di Carlo ebbe cominciamento. Il non contrastato varco di Ceprano fu il primo atto del Dramma che finì presso a Benevento. Poi dal secolo 13° giungendo al 19° pensai al rumor d’armi, che colà si fece quando il braccio del Signore disperdea come nube leggera tutte le fortune create dal capitano fatale. E la fantasia popolava quel deserto di fantasmi, gettava fra quel silenzio e quella oscurità cento colori, e cento suoni. Fu invero un felice viaggio il mio sì felice che al tornar della mente alle reali sensazioni mi sentii bagnate le spalle e ‘l collo dalla brina notturna, la gola dolente, e ‘l corpo intirizzito non ostante il tabarro. Allora mi pentii d’aver preferito al riposo la veglia, il caldo al gelo. Tanto più che il mio compagno dormiva russando con tale un’armonia da basso, da disgradarne lo stesso Lablache. Quindi chiuse le imposte, e smorzata la lampada funerea, senza spogliarmi, mi adagiai sul ferétro; ponendo sul tabarro il paletot, e sovra questo la coltre; intorno alla gola un fazzoletto di lana, sul capo un berretto pur di lana e intorno a questo un altro fazzoletto. Poi volgendomi sul lato manco cacciai tutta quella roba sotto al lato opposto, cosicchè ponendomi a giacer supino acquistai la sembianza d’una mummia de’ tempi di Sesostri. Dopo un istante dimenticai nel sonno quel duro letto, Ceprano, e le sue vicende. Ma non appena avea chiusi gli occhi ruppemi quel primo sopore una specie di ruggito, e poi … un suon di catene, che veniva di sotto al letto; sentii tra ‘l mento e ‘l petto qualche cosa di grave che m’impediva il respiro. Per moto istintivo cavai la mano a toccar che fosse. Ahimè! una bestia facendo un salto strano mi morse e graffiò la gola e le mani… un’ altra bestia incatenata si slanciò su le mie gambe, questa abbajando, quella miagolando. Ajutó! ajuto! gridai rovesciando le coperture sovra le furenti, e balzando in piedi… ajuto!

– Che avvenne! gridò il compagno balzando a terra anch’esso.

– Un gatto del Bengala, e un can di Terranova voleano sbranarmi.

– Dove sono!

– Sul mio letto.

– Ammazziamoli.

– Ammazziamoli; armatevi del mio bastone ch’è presso di voi.

– Non faremmo nulla co’ colpi, seppelliamoli.

–  Sepelliamoli sotto il fasto dell’Europa.

E in men che no ‘l dico cominciammo a gittare i mobili della stanza su le bestiacce, che ravviluppate nelle lenzuola e nella coltrice faceano un baccano infernale.

Allo strepito tutta Europa fu scossa, e quattro donne scarmigliate pari a quattro furie, colle fiaccole fra mani, apparvero su l’uscio che aveano spalancato. Eran le meschine di Perusi Bey. Queste mirando quella rovina sul letto, e noi sdegnati, e rubicondi in viso, cominciarono a gittar le grida altissime.

– Alto signori gridò il Bey, accorrendo.

– Che alto e basso, se sono stato li lì per esser mangiato vivo dalle vostre bestie!

– Dove sono?

– Là sotto.

– Ah ah ah!  sta cheto Argante, sta cheta Belluccia. E mentre toglieva lor dal dosso le suppellettili, Belluccia e Argante, che lo avean riconosciuto, lo ringraziavano col miagolio, e col latrato.

– Tornino a letto signori, e scusino la non mia colpa.

E sparve colle Megere.

Volea il cortese amico che io mi ponessi a giacere al suo fianco. Ma come stare in due là dove uno non potea! E però mi stesi sovra una sedia, e sta volta la stanchezza poté più che la rabbia.

Non so quanto dormissi, so solamente che mentre sognava di vedere il giudizio di Michelangelo mi percosse l’orecchio un suon di tromba.

– Al giudizio! gridai destandomi.

– Che giudizio! che altro è avvenuto! sclamò il compagno mio, onesta e gentile persona.

– Chi suona la tromba!

– È ‘l conduttore.

– E perché suona?

– Perché è giunta l’ora della partenza.

– Sia lodato Iddio –

In due minuti feci alla meglio un po’ di toletta, scesi giù, pagai otto paoli per la stazione e pel pranzo, cinque bajocchi pel caffè così detto un paolo pel cameriere, che nessuno vide, un paolo al facchino che avea poste le robe su la Imperiale, e impaziente presi posto cogli altri nella diligenza di Roma che partì a quella volta, mentre l’altra che ci avea condotti fin là tornava a Napoli.”

Modello di Imperiale

Lasciamo che il nostro Malpica prosegua il viaggio verso Roma, noi restiamo a Ceprano. Il nostro interesse per alberghi, hotel e locande non finisce così e presto ci ritroveremo qui  per raccontare altre storie: dove si trovava localizzato questo Hotel de l’Europe a Ceprano? Quanto era grande? Quando fu costruito? Era gestito nel 1843 dal sig. Perusi ma chi fu il proprietario dell’immobile e chi il progettista? Lo scopriremo in un prossimo articolo, con qualche sorpresa.

Seguiteci.

Aldo Cagnacci e Mauro Martini

Ceprano, marzo 2024


Brani tratti da:

Immaginando Ceprano. Memorie, Mappe e Rappresentazioni (Edizioni Museo Archeologico di Fregellae, Quaderni Fregellani, Ceprano 2014), Premio Fregellae 2016, di Francesco Arcese, Mauro Martini, Pier Giorgio Monti e Onorina Ruggeri, soffermandoci sul capitolo Passaggi e Paesaggi di frontiera. Ceprano e dintorni nelle memorie dei viaggiatori dell’800, nella parte che tratta de La sosta e l’ospitalità a Ceprano, scritto da Mauro Martini.

Venti giorni in Roma. Impressioni di Cesare Malpica. Taccuino di viaggio pubblicato a Napoli nel 1843, scritto tra il 29 maggio e il 29 giugno, 224 pagine sulle meraviglie di Roma; un sogno, come dice l’autore, da narrare “non per fare un’altra guida, dopo le tante che vanno intorno in tutte le lingue viventi; non per far pompa di erudizione, che come sapete è merce screditata; non per accattar lode da’ sapienti, ma sol per confortar la mente, che è tornata alla sua prosa molesta, colla poesia di quel sogno divino.”


Abbiamo scritto sui viaggiatori ottocenteschi:

I costumi tipici e le locande di Arce nel racconto di un viaggiatore dell’Ottocento

Le “belle di Ceprano” e dintorni. Usi e costumi nelle memorie dei viaggiatori dell’800

La sosta e l’ospitalità a Ceprano nelle memorie di un viaggiatore polacco dell’800

Grand Tour, viaggio in Italia

Riferimento bibliografico Immaginando Ceprano, il libro

Foto di copertina: Charles Humbert (1813-1881), Diligenza in corsa

Lascia un commento

Blog su WordPress.com.

Su ↑